Una camminata a metà tra il mare ed il cielo.

I monti Aurunci, monte Sant'Angelo e monte Redentore


Quando la passione per il calcio chiama e soprattutto quando un amico ti sorprende e stupisce con un biglietto per la finale di Coppa Italia allo stadio Olimpico dove a giocare è la tua squadra, è impossibile non rispondere. La serata è stata stupenda, la Juve ha vinto, averla vista vincere mischiato nel settore distinti dei milanisti (il mio amico è un milanista) non ha avuto goduria più fine; insomma il pomeriggio del Sabato ha avuto le sue soddisfazioni ma il rientro a casa, tra recupero dell’auto lontana un paio di chilometri dallo stadio, il traffico tipico dei sabati sera romani, con l’aggravante degli sessantamila dello stadio è stato lento e sudato. Solo poco prima delle due sono finito sotto le lenzuola, ho tardato anche a prendere sonno con gli echi dei cori da stadio che rimbombavano ancora nelle orecchie… e la sveglia era programmata inesorabilmente per le sette meno dieci. Si perché questo primo week end veramente estivo non volevo perderlo e non poteva non essere dedicato alla montagna. In una situazione così stretta con i tempi, compresi quelli, pochi, da dedicare al sonno, occorreva trovare una escursione facile e poco dispendiosa; da tempo era nei nostri pensieri una escursione sulle montagne “quasi” di casa, mai per un motivo od un altro ha avuto seguito e questa volta era l’occasione per farla tornare in auge. Progetto migliore non era possibile, e finalmente siamo andati a conoscere i monti Aurunci. Da Aprilia in poco più di un’ora e mezza siamo arrivati a Maranola, bel paesino arroccato sulle prime pendici degli Aurunci a circa trecento metri di altezza, quelli sufficienti ad avere un affaccio meraviglioso sul golfo di Gaeta. L’avvicinamento era davvero strano o quanto meno inconsueto, più che avere come obiettivo la montagna sembrava si dovesse andare a passare la Domenica in spiaggia, soprattutto quando raggiunte le parti di Sperlonga, quando la strada si solleva a picco sul mare, l’azzurro del Tirreno attira come una sirena ammiccante; la meta di questa escursione erano i monti Aurunci, quel piccolo comprensorio di montagne non più alte di millecinquecento metri a ridosso, quasi a picco, del golfo di Gaeta. Non conoscevamo affatto queste piccole montagne, la fama le aveva precedute da tempo, soprattutto quella dei panorami che da quei crinali si riescono a godere, si era fatta l’ora di verificarla di persona. Si attraversa il paese di Maranola, dalla parte opposta di quella che sembra essere l’unica strada che taglia il paese in due, si prende via del Redentore (omonimia con il monte che sovrasta il paese, guarda caso) che dopo le ultime case si defila all’interno di un vallone dal sapore tipicamente mediterraneo. La strada costeggia e si inerpica in una serie infinita di tornanti, in mezzo alla macchia mediterranea, boscaglia, rovi e ginestre ora splendidamente color oro. Nemmeno troppo lentamente ci si alza di quota, ad ogni curva lo specchio di mare del golfo si allarga, dopo il tornante successivo sono gli speroni rocciosi del monte Redentore che si alzano ripidi sempre più verticali, poi di nuovo mare e poi ancora montagna, più in alto anche in mezzo a boschi di lecci, anche loro tipicamente mediterranei. E profumi, profumi di quella natura che vive di salsedine e di arsura del sole; il Mediterraneo, la culla di tutte le civiltà, cosi capace di creare spicchi di paradiso e di dividerli con le montagne che ci si tuffano quasi; ma come abbiamo fatto a non venire a curiosare prima da queste parti? Saliamo lenti, inaspettatamente, facciamo fila, scopriremo solo dopo che si procedeva col passo di un gregge di capre perché era la giornata a memoria della transumanza aurunca; addirittura un agente del parco a gestire chi aveva fretta di salire. Fila per salire una montagna eppure era tutto in sintonia con l’ambiente, con quella cultura che fa parte dell’immaginario collettivo e che non ti aspetti di sfiorare. In fondo, pur essendo ancora in provincia di Latina la sensazione di meridione è forte, di quel meridione dove il tempo passa più lento, dove l’accento è una cantilena, dove correre non ha più senso. Superato il gregge abbiamo raggiunto il rifugio Pornito (sulle carte è ancora chiamato così ma una targa sulle mura lo definisce ora come del Redentore), attraverso una strada asfaltata che in alto, per alcuni tratti, permette il passaggio di una sola auto ma che rimane sempre spettacolare e panoramicissima verso un mare azzurro e piattissimo. L’area parcheggio sotto al rifugio è al gran completo, sfiliamo fino a trovare una piazzola successiva; attacchiamo a salire senza sentiero per raggiungere il rifugio da dove si inoltrano i sentieri 960-961 e 962 per il monte Redentore e per entrare nel cuore del parco. Il sentiero ben curato e molto suggestivo è per un lunghissimo tratto attrezzato con palizzata verso valle, già dal rifugio è intuibile tutto il suo dipanarsi, un lungo traverso in costante leggera salita ad aggirare l’ampio vallone che si ha davanti, fino ad un primo balcone dove si erge una statua di una madonnina a vegliare sulla valle; da questo spuntone roccioso il sentiero rientra nel cuore del vallone e si inerpica con una decina di tornanti, che se pur attenuano la ripida salita allungano non poco il percorso. Fuori dal tratto più ripido, dove una processione di “turisti” della montagna salgono lenti e purtroppo chiassosi, il sentiero spiana fino a raggiungere uno slargo, sotto un ripidissimo costone che forma una profondo tetto e dove, nella roccia, a chiudere una grotta, immagino naturale, si erge la facciata di una chiesa, dedicata a San Michele. Ricorda in parte, anche se la zona è certamente più turistica e meno selvaggia e l’accostamento è forse irriverente, i più famosi e certo più affascinanti, eremi della Majella o dei monti Gemelli. La posizione di questa chiesa, 1063 metri di altezza, su una spianata con vista golfo di Gaeta non passa inosservata e giustifica anche la cura con cui il sentiero è così ben attrezzato. Lo stesso, dopo la chiesa di San Michele, continua con meno tornanti e con traversi via via più lunghi e meno ripidi fino alla vetta del Redentore, dove una statua del cristo, sovrastante una brutta cupola aperta sui quattro lati e che ospita altrettanti altari, impone la sua presenza a tutta la costa. Una sorta di Cristo Redentore “de noantri” sullo stile di quello di Rio del Janeiro sul monte Corcovado; questo degli Aurunci per la cronaca, più tradizionale nelle vestigia e meno appariscente si trova cinquecento metri più in alto dell’illustre collega sud americano, e non è poco se ci va di ammetterlo. Il sentiero termina di salire su una sella erbosa, sella Sola, sulla destra altri corti e serrati tornanti portano alla cima del Redentore, mentre davanti si dipana quello ampio che si inoltra verso il cuore degli Aurunci. Una carrareccia più che un sentiero, scoperta da vegetazione attraversa quasi in piano un chilometro circa fino a sella senza nome, il primo di un crocevia di sentieri; leggendo la carta, quella dorsale boscosa che abbiamo davanti un po’ sulla destra, sembrerebbe essere la nostra meta, di certo il monte S. Angelo e quella sommità alle spalle, rocciosa e ruvida dovrebbe essere il Petrella o una sua anticima. Per la cronaca, il monte Petrella è la vetta più elevata degli Aurunci e supera di poco i millecinquecento metri di altezza. Dalla sella, il leggera discesa si cambia scenario, si entra in un bel bosco di faggi meravigliosi, alcuni ancor più belli perché isolati, seguiamo il filo di sentiero, ancora un tratto in comune tra il 961 e 962. Non percepiamo dove i due si separano, il 961 sale direttamente verso il S.Angelo, e noi ci accorgeremo dopo che lo abbiamo mancato; continuiamo a scendere anche se non di molto, incrociamo un’ampia carrareccia e la prendiamo sulla destra, è transitabile e transitata visti i segni di ruote sul fondo, il bosco di faggi intorno si fa ora fitto. E’ un continuo scampanio delle mucche al pascolo, di rado si riescono a vedere, disperse e confuse come sono su rocciosi pendii che abbiamo intorno; è un continuo concerto di cinguettii e canti di uccelli diversi. Seguiamo il tracciato della carrareccia, sugli alberi molti segnavia bianco rossi del CAI, prima di riprendere a salire un’ampia melmosa pozza, di certo abbeveratoio per gli animali, è sorvegliata da un possente toro che ci sorveglia silenzioso e immobile ma poco rassicurante; gli passiamo incuranti, ma guardinghi, a poca distanza, la nostra indifferenza viene ripagata con la stessa moneta e non ci degna di attenzione. Si continua a salire dentro la fresca ombra del bosco per una ventina di minuti fino a raggiungere una fonte, fonte di Canale leggiamo sulla carta, posta poco sotto i 1300 metri di altezza. Questa fonte è a carattere perenne, quindi una bella certezza da ricordare per escursioni future. Qui riprendiamo la carta, era chiaro ormai che eravamo, anche se di poco fuori del percorso che avevamo immaginato. Il 962 che stavamo seguendo avrebbe condotto direttamente al monte Petrella, aggirandolo verso Est, raggiungendo la forcella di Fossa Juanna e continuando in cresta fino alla vetta. Sulla carta però la fonte è anche crocevia di sentieri, da lì parte il 913c che tagliando i pendii del Petrella raggiunge direttamente il S.Angelo, ormai diventato la nostra meta e scelto perché quello più vicino al mare e di certo quello con un panorama di vetta più bello. Una palina posta poco più in là non ha reso difficile trovare l’inizio del sentiero, nemmeno mezz’ora di ombroso traverso costantemente in salita fino alla vetta del monte. Come immaginavamo i 1402 metri di questo sperone roccioso si affacciano sul golfo senza che nulla davanti lo sovrasti. La vista spazia dal monte Redentore allo sperone di Gaeta che si allunga sul mare, a tutto il golfo e tutta la costa a Sud, se non ci fosse la foschia sono sicuro fino al Vesuvio. Dal mare, che all’orizzonte si confonde col cielo emerge chiaramente la sagoma dell’isola d’Ischia, solo intuibile anche la bassa dorsale dell’isola di Ventotene. Seduti sugli speroni in vetta, come in mezzo ad un giardino roccioso ricco di rigogliose fioriture, ogni altra velleità di conquista se ne è andata; il Petrella alle nostre spalle, a solo 30 minuti di cammino, era solo un grosso mucchio di pietre, il tempo che avevamo a disposizione prima di decidere per il ritorno volevamo spenderlo dove eravamo, in quest’angolo di natura meravigliosa. Ci passiamo una mezz’oretta in vetta, in mezzo ad un mare di fiori, mai sazi di tanto panorama, il sole scalda, la brezza non lo fa nemmeno sentire troppo e si finisce addirittura per sentirne le leggere a tratti troppo fresche folate che si infilano lungo la schiena. Quando le folate da fresche diventano freddine piuttosto che coprirci decidiamo di riprendere la via del ritorno; il Petrella può davvero attendere e prendiamo a scendere sulla dorsale rocciosa, fino alla sella sottostante, tra continui affacci sul mare e continue stupende fioritura di bianchi asfodeli, fino a ricongiungerci al sentiero dell’andata sulla sella senza nome. Da lì dopo venti minuti ci avrebbe aspettato la salita al Redentore, speranzosi che la chiassosa comitiva che avevamo incontrato in salita si fosse dileguata. La vetta era invece più affollata di piazza Venezia a Roma nell’ora di punta, segno che il Cristo Redentore “de noantri” ha il suo bel richiamo quasi turistico. L’affaccio in effetti è di prim’ordine trattandosi dello sperone degli Aurunci più vicino al mare, ma anche la fama del sentiero storico- religioso che lo raggiunge avrà la sua non poca influenza per questo grande continuo assembramento. Troppa confusione, nulla in confronto alla bella solitudine del S. Angelo, il tempo di girare intorno alla cappella sormontata dal Cristo e riprendiamo a scendere. I tornati, sotto il sole a picco, sembrano interminabili, le svolte infinite; le stupende diverse fioriture lungo il ciglio e il profumo diffuso di salvia a poco servono, anche l’affaccio continuo sul golfo è meno affaccio, insomma meno ammiccante. Il caldo ora fa sentire i suoi effetti e l’ombra quasi non esiste, è il rifugio laggiù in fondo al sentiero ciò che ci attrae, insieme a quanto sarà capace di poterci offrire in ospitalità. Costantemente in discesa, tornante dopo tornante, sfiliamo fino all’ultimo traverso che taglia il vallone, ed arriviamo al rifugio del Redentore. Sotto gli ombrelloni sulla veranda del rifugio in faccia al golfo, una bella birra e gassosa per attenuare l’arsura e poi un trionfo di antipasti insieme ad un “leggerissimo” piatto di pasta al sugo di salsiccia hanno chiuso la prima puntata degli Aurunci; perché, ne sono certo, ce ne saranno altre, molte altre. Riesco già ad immaginare quello che si può godere in una giornata di aria tersa e pulita da queste piccole montagne, per non parlare di quello che si potrà apprezzare in una bella giornata invernale, magari con le cime imbiancate che contrasteranno con l’azzurro del mare e del cielo. Alle spalle gli Appennini e davanti il mare, le isole e la costa fino al napoletano. Una scoperta gli Aurunci, una bellissima scoperta che andrà coltivata.